Mappe e leggende: il “making of” della mappa di Holt

Come si costruisce la mappa di una città che non esiste? Abbiamo chiesto a Marco Denti, l’autore della cartina fisica di Holt allegata al cofanetto della Trilogia della pianura di Kent Haruf, di raccontarci la sua esperienza di “geografo dell’immaginario”.

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di Marco Denti

Nella prefazione a Sulle mappe di Simon Garfield, Dava Sobel scrive un passaggio curioso:

Cartine e mappe occupano spesso i miei pensieri. Quando lavoro al progetto di un libro ho bisogno di tenere sotto mano una mappa del territorio per aiutare i personaggi a trovare le loro radici. Mi capita di pensarle anche nei momenti più inaspettati: per esempio, sto facendo pulizia nella cartella dello spam della casella di posta elettronica ed ecco che mi rendo conto che la parola spam non è che la parola maps scritta al contrario, e che la mappe sono l’esatto opposto dello spam: non ci impongono la loro presenza non richiesta, bensì sono loro che ci chiamano a sé.

(Traduzione di Monica Bottini e Sabrina Placidi)

Forse è questo il motivo per cui l’essenza invisibile di Holt mi attirava. La tradizione delle contee immaginarie vanta precedenti e colleghi illustri, da William Faulkner nella contea di Yoknapatawpha ad Allan Gurganus con la trilogia Local Souls (che comprende L’esca, Non abbiate paura e Anche le sante hanno una madre, tutti pubblicati in Italia da Playground) ambientata nella fittizia Falls, North Carolina.

Nel corso della Trilogia della pianura, Kent Haruf dissemina una gran quantità di indizi, ma, come è logico, l’ordine in cui ricombinarli rimane misterioso. I suoi protagonisti, pur muovendosi in un paesaggio circoscritto, non stanno mai fermi, vanno e vengono dalla città e il più delle volte si lasciano trascinare dall’istinto di cambiare aria. Giusto per farmi un quadro della situazione, mi ero segnato alcune coordinate, la posizione della fattoria dei McPheron rispetto alla città e poco altro. All’inizio la mia mappa era molto provvisoria, o per dirla con Peter Steinhart, era giusto “un modo per organizzare la sorpresa”. È stato Alberto Ibba a intuirla, prima di me, a sollecitarmi a modificarla in modo più intelligibile e a renderla di pubblico dominio.

Me la sono cercata. Holt, intendo: il primo passaggio è stato localizzarla nelle pianure del Colorado. La prima cosa che mi serviva era un aggancio da cui partire. L’indicazione più precisa, a suo modo definitiva perché arriva in Benedizione, il capitolo finale della trilogia, dice che Holt è a due ore e mezza a est di Denver. Allora, come dice Bob Seger in uno dei suoi più sfrenati rock’n’roll, Get Out Of Denver: sì, ma attenzione alla velocità. Calcolando che nello stato del Colorado un codice della strada “ragionevole e prudente” prevede una soglia massima di 75 miglia all’ora, con molte restrizioni per le aree residenziali (30 miglia all’ora), per le zone di montagna (20 miglia all’ora) e per le aree rurali (55 miglia all’ora) e che queste variabili s’incontrano più o meno tutte nel tragitto da Denver a Holt, il campo si restringe a ben poche città. Inoltre Kent Haruf cita come tappa intermedia Brush, un dettaglio che rende la cernita ancora più limitata. Brush esiste davvero ed è anche al centro di un bivio: per cui le possibilità restavano solo due.

Nel raggio di quella distanza e in quella direzione ci sono solo un paio di città che potrebbero concorrere a diventare Holt: Sterling, un po’ più verso nord, e Yuma (da non confondere con la ben più famosa Yuma, Arizona). Entrambe sono abbastanza simili: alcuni particolari combaciano, la ferrovia soprattutto (che, come si vedrà, è un elemento dirimente); altri no. Ho assecondato un parere abbastanza diffuso che predilige Yuma perché i nomi delle vie (quelle dedicate alle città americane a est di Main Street e agli alberi a ovest) e alcuni edifici (la scuola, la posta, l’ospedale, la banca) sono proprio gli stessi. Tra l’altro l’esclusione di Sterling ha un senso, perché la città è attraversata da un fiume e un fiume non è una caratteristica da poco, anche per un cartografo dilettante. A Holt il fiume non c’è.

Secondo Simon Garfield, “le mappe sono nate come una vera sfida all’immaginazione”. Nel costruire la mappa di una città che non c’è (la scommessa è più che doppia), ho pensato di cominciare a fare un po’ di pulizia e partire dal minimo indispensabile, e cioè le coordinate: longitudine e latitudine. In questo Kent Haruf non è stato molto d’aiuto: pur dispensando volentieri indicazioni secondo i punti cardinali, come unità di misura usa gli isolati, che non seguono una scala ben definita.

Anche nel suggerire le direzioni, le parole lasciano aperte molte possibilità. Per esempio, in una scena di Canto della pianura, Victoria “risale” Main Street percorrendola da nord a sud. Nella lettura è tutto logico e coerente, ma su una mappa l’idea sarebbe piuttosto quella di scendere.

Disegni preparatori di Marco Denti: Railroad Stret
Disegni preparatori di Marco Denti: Railroad Stret

Questi gli ostacoli, che ho risolto partendo dalle linee essenziali. In cerca di semplicità, ho deciso di cominciare dall’inizio, da Canto della pianura e quindi da Railroad Street, perché nella mappa la ferrovia è una componente fondamentale. Separa Holt nelle due zone (quella residenziale a sud e le “badlands” a nord) ed è utile per avere un appiglio concreto alla realtà. La ricostruzione di Kent Haruf è un po’ ambigua: in Benedizione scrive che la ferrovia passa sopra 2nd e 3rd Street e in questo modo la ferrovia taglierebbe su Holt da sud-ovest a nord-est. Questo, per dire, è uno dei particolari che avrebbero funzionato su Sterling, dove lo scalo ferroviario è molto più articolato. La direzione del tracciato su Yuma è invece piuttosto da nord-ovest a sud-est. Io l’ho mantenuta così, per cui ecco Railroad Street, dove Tom Guthrie abita con i figli, la loro capanna sul pioppo, il sentiero che costeggia i binari e la centrale elettrica in disuso.

Un primo schizzo mi è servito a definire l’ambiente, la posizione; poi sono partito seguendo i ragazzi nella consegna dei giornali. Nel loro tragitto offrono già un percorso dettagliato, prima alla stazione con il vagone del latte, poi lungo un passaggio sulla Main Street. Il problema erano le vetrine su Main Street: a parte alcuni punti fermi, nel corso della trilogia, soprattutto sul lato ovest, faticavo a incastrarle tutte; anzi, in qualche caso si sovrapponevano. In particolare la densità di vetrine all’incrocio con Third Street mi sembrava particolarmente elevata. La difficoltà era mia, che continuavo a ragionare a due dimensioni: sulla e nella mappa. Come mi ha fatto notare Eugenia Dubini, anche a Holt, come nel resto del mondo, gli anni passano, perciò nell’arco della trilogia c’è la concreta probabilità che diversi negozi si siano susseguiti allo stesso indirizzo. La scrittura ha tutti i suoi limiti, ma è l’unico modo per viaggiare nel tempo. Ecco la dimensione che mi mancava: l’elemento che rende la trilogia della pianura di Kent Haruf l’implicita conferma dell’equazione di Joseph Brodsky per cui “la geografia combinata col tempo equivale al destino”.

Disegni preparatori di Marco Denti: Main Street
Disegni preparatori di Marco Denti: Main Street

Assodati i limiti innati della mappa in sé, e dopo aver tracciato la ferrovia come riferimento della latitudine e la Main Street come meridiano principale, Holt si è evoluta di conseguenza con parallele e perpendicolari, perché le forme delle smalltown sono più geometriche che fantasiose. La base è rimasta la Highway 34, dove succede un po’ di tutto. Il confine a est è delimitato da Detroit Street, la zona in cui si svolgono le tristissime giornate della famiglia Wallace. Una volta definito il reticolo, ho cominciato a tracciare le strade, a collocare le abitazioni, i negozi, le chiese, gli incroci, tutto a matita e temperino, con punte molto affilate; un po’ perché è stata un’avventura fuori dagli schemi e affrontare una lettura con strumenti in gran parte sconosciuti ha richiesto una certa lentezza nell’inventarmi un metodo. Sono stato felice di scoprire poi che Kent Haruf correggeva a matita, perché ho avuto la sensazione che la magia nell’inventare tanti luoghi, anche appena accennati, come una fattoria abbandonata a nord di Holt, passassero attraverso il disegno o comunque un approccio più istintivo.

Con quel metro, ci si accorge che Holt è davvero una nazione in sedicesimo, un’entità autonoma con banca, posta, giornale, tribunale, stazione, bar e taverne, tutto quello che serve, in miniatura. La collocazione scrupolosa di Kent Haruf non dimentica i monumenti e seguendolo si capisce cosa intendesse Samuel Johnson quando scriveva che “lo stato è lo stato della vita ordinaria”. Non è solo l’antico vagone del latte nei pressi della stazione, ma anche il carro armato nella zona giardini e delle piscine pubbliche (per inciso, ho ipotizzato che sia uno Sherman, anche se non è mai specificato, perché se c’è un mezzo militare finito sui piedistalli di mezzo mondo è proprio quello). Da lì in poi ho seguito soltanto il suggerimento di William Least Heat-Moon, impegnato a sua volta nella “topografia manuale” della contea di Chase , Kansas (stessa latitudine di Holt) in Prateria:

Fa’ un piccolo viaggio di congiunzioni, di coincidenze, passa il tempo ad attraversare, o perlomeno a sfiorare, le latitudini e le longitudini altrui; e dal momento che non puoi occupare lo stesso posto degli altri nello stesso tempo, cerca di occupare lo stesso tempo nello stesso tempo.

(Traduzione di Igor Legati)

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Disegni preparatori di Marco Denti: la mappa di Holt

Una precisazione: la fattoria dei McPheron dovrebbe stare un po’ più a sud, ma era troppo importante per non includerla, e così è stata “avvicinata” a Holt per riuscire a tenerla nei confini della mappa. L’unica outtake è il ponte della ferrovia a ovest di Holt, con l’ampia curva dell’Highway 34. Una svolta che ha anche un valore simbolico, perché rappresenta un po’ le Colonne d’Ercole dell’intera contea. Quel ponte è rimasto fuori, per ragioni di spazio, ma non solo: dopo c’è l’ignoto, ovvero Denver, la città dove è facile scomparire. Io, invece, non lascerei Holt per nessun motivo: la gente è ospitale, la birra non manca e sono stato fortunato ad aver contribuito con la mia sommaria ricostruzione all’interpretazione di un grande artista come Franco Matticchio, che ha aggiunto un tratto poetico, quasi una versione grafica delle parole di Kent Haruf: “Sono felice di essere qui, sono felice di essere ovunque”.

Peraltro trovo bellissimo anche che nella sua visione Matticchio abbia invertito l’ovest con l’est: magari è un particolare infinitesimo, ma a me ha ricordato che, in fondo, una mappa è soltanto un riflesso.

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