Da lunedì mattina troverete in tutte le librerie Le nostre anime di notte, l’ultimo romanzo di Kent Haruf. Ieri il Corriere ha pubblicato in anteprima esclusiva il primo capitolo della storia dolce e ribelle di Louis Waters e Addie Moore; oggi vi proponiamo la Nota conclusiva di Fabio Cremonesi, che riflette sul terzo grande protagonista della vicenda: il tempo, con tutta la sua inesorabile urgenza.
Buona lettura!
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In superficie, Le nostre anime di notte costituisce per il lettore affezionato un altro ritorno a casa, a Holt. C’è persino un bagno liberatorio, proprio come in Benedizione, nonché qualche divertita autocitazione (Conosci dei vecchi fratelli che somiglino a quei due? Quelle storie sono successe qui?).
Eppure ci sono anche corpose differenze rispetto alla cosiddetta Trilogia della pianura. Se dovessi riassumerle in poche parole, mi verrebbe da dire: il senso di urgenza. Molti lettori e critici hanno giustamente sottolineato la sostanziale atemporalità della Trilogia: a parte i rari riferimenti precisi (il rischio di essere arruolato e mandato a combattere in Vietnam per il figlio di Dad Lewis in Benedizione, ad esempio), il tempo sembra scandito soltanto dall’avvicendarsi delle stagioni. Invece, mentre leggevo Le nostre anime di notte continuavo a pensare all’autore, quest’uomo anziano e malato che lotta contro il tempo per riuscire a raccontare tutta la storia che ha dentro, anche a costo di farlo senza la consueta precisione e asciuttezza. Siamo certi che anche il lettore italiano – come già quello statunitense – comprenderà la scelta di mantenere le minuscole imprecisioni del testo originale: una scelta dettata da un duplice intento, quello di rendere la concitazione con cui l’autore ha portato a termine la sua ultima opera, e quello di sottolineare lo status di classico (con quel che ne consegue in termini di “intangibilità” dei testi) che Haruf ha ormai acquisito.
Ma il senso di urgenza non si limita a permeare la forma di questo romanzo breve, sembra anche determinarne i contenuti, la trama, la psicologia dei personaggi: dietro ogni gesto di Addie Moore, dietro ogni sua parola, ogni sua decisione sembra esserci in agguato un “prima che sia troppo tardi”. Ed è contro un “ormai è troppo tardi” che si infrangono le ambizioni poetiche di Louis, così come il desiderio di un’anziana all’Holt Café, che pure simpatizza con la coppia dei protagonisti (Potresti stupirti di te stessa. Oh. no. Non posso. Non alla mia età). Naturalmente ciò è meno evidente nei personaggi più giovani, eppure anche al piccolo Jamie sfugge un: Secondo te li rivedremo? A proposito dei topolini scomparsi dalla scatola.
Oltre al tempo e all’urgenza ci sono ancora un paio di differenze sostanziali che ci tengo a sottolineare (anche se preferisco lasciare ogni ulteriore riflessione in proposito a chi è più titolato di me a farlo: il lettore innanzitutto, e poi critici e recensori). La prima è sul gioco metaletterario a cui accennavo all’inizio, così lontano dalla scabra essenzialità a cui l’autore ci aveva abituato; un gioco che però ci riporta lo stesso, attraverso un breve scambio di battute (Potrebbe scrivere un libro su di noi. Ti piacerebbe? Non mi va di finire in un libro, rispose Louis) alle radici schive e al contempo profondamente “umane” della scrittura di Haruf.
La seconda è una differenza di contesto sociale: se la Trilogia è una sommessa epopea della working class, Le nostre anime di notte è, a mio parere, un’elegia della middle class e delle sue fragili certezze.
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NdR: I biglietti per l’omaggio a Kent Haruf che andrà in scena domenica 12 al Teatro Franco Parenti sono esauriti, ma il teatro ha predisposto uno schermo per la diretta streaming nella Sala Foyer, con 200 posti aggiuntivi: trovate info e costi nella biglietteria online del Franco Parenti.