Sarah Manguso, Il salto – L’incipit

Oggi arriva nelle librerie Il salto. Elegia per un amico di Sarah Manguso, tradotto per noi da Gioia Guerzoni; se siete curiosi di dare un assaggio, vi proponiamo qui le prime pagine.

Buona lettura!

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Sull’edizione del giovedì del Riverdale Press c’era un articolo che cominciava con Ieri notte un uomo bianco non identificato è stato travolto da un treno della Metro-North che entrava nella stazione di Riverdale in West 254th Street. L’uomo è morto sul colpo.
Il macchinista aveva dichiarato alla polizia che l’uomo era solo e si era buttato sui binari. La polizia aveva rimosso il corpo e cercato i documenti, invano. I 425 passeggeri erano stati trasferiti su un altro treno, che era ripartito con una ventina di minuti di ritardo.

Se fossi una giornalista, avrei parlato con tutti e preso nota di tutto. Sarei andata in ospedale e avrei interrogato chiunque si trovasse nel reparto psichiatrico quando il mio amico, Harris, è uscito dalla porta. Solo così questo libro avrebbe potuto essere un resoconto accurato della verità.

Per descrivere i fatti in maniera responsabile, con sufficienti ricerche per confermarli, avrei dovuto chiedere a diverse persone dell’ultima volta in cui l’avevano visto. Ma ho paura di fare domande ai suoi genitori. Ho paura di parlare con la sua ultima amante. Ho paura di incontrare i medici, il macchinista.

Per tre anni ho studiato orchestrazione klezmer, fisica dei temporali, mappe dell’Europa dell’Est. Pensavo di poter barattare la mia vita con quelle ricerche inutili, infaticabili. Avevo talmente paura delle risposte che non ho fatto domande, e ora sono passati tre anni. Ormai nessuno ricorda più i dettagli di quel 23 luglio 2008.

Avrei potuto aspettare la fine della mia vita per capire cos’è successo quel giorno, rimandare tutto all’ultimo momento per vederne l’effetto, invece ho aspettato per un periodo di tempo che ora sembra arbitrario, assurdo.

Mi ero tanto sforzata di dimenticare la morte di Harris che ormai i ricordi sono vaghi, erosi dal tempo, ricoperti dalla polvere di tutto quello che è accaduto poi. Ma ora voglio ricordarla, e impedire che mi tormenti.

Sappiamo che il tempo di Harris si perde a mezzogiorno – l’aveva detto l’infermiera dell’accettazione – fino alle 22.48, quando il treno è entrato in stazione. Forse in quel minuto il macchinista aveva azionato il freno pneumatico. Forse aveva fatto partire la sirena. E poco prima o poco dopo, il muso schiacciato, o forse tutta la pancia del treno poco al di sopra dei binari, erano entrati in contatto con il corpo ancora vivo del mio amico.

Vorrei dire che dalla vita di Harris mancano dieci ore, ma non è esatto. Semplicemente, quelle ore hanno fatto parte della sua vita, la sua soltanto.

Non saprei dire se Harris abbia provato sollievo quando si è disteso sui binari, anche se mi piacerebbe. Non riesco a immaginare altro che angoscia, una luce accecante, poi il nulla.

Il dolore che porto con me ora, e che a volte si attenua senza preavviso, non è il suo. Questo dolore è mio, e a differenza del mio amico non cerco di nasconderlo. Lascio che ricopra tutto. Urlo in casa. Piango in metropolitana. Dico a tutti quelli che conosco che il mio amico si è buttato sotto un treno.

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Questo libro è per chi si abbraccia, conta fino a cinque, e poi sceglie di andare a dormire sul divano, per chi piange cantando a squarciagola Forever young di Bob Dylan, per chi saltella di gioia a pugni stretti e per chi crede che la misura del passato sia la larghezza, che come un’ala porta con sé anche gli amici perduti.

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