Una delle fasi più importanti, nella genesi di un libro, è la scheda di lettura: il momento in cui il libro passa per le mani di un lettore professionale, che ne valuta le potenzialità intrinseche e pensa, magari, a una sua possibile collocazione editoriale. Prima di uscire per noi, Bull Mountain di Brian Panowich è passato attraverso il vaglio di Alessandro Mazzina, a cui abbiamo chiesto di raccontarci la sua esperienza di primo lettore delle avventure dei fratelli Burroughs.
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In qualità di lettore editoriale, mi è capitato spesso di chiedermi come mai, tra i romanzi che per lavoro leggo ogni anno, Bull Mountain sia riuscito non solo a sopravvivere all’attacco insidioso di altre letture (una cospicua potenza di fuoco), ma anche a sedimentarsi strato su strato – come la roccia fa con il monte – fino a diventare un’entità capace di emanare luce propria e, allo stesso tempo, mettere in ombra alture e rilievi ingannevoli di altri libri. I romanzi – ma il meccanismo vale per tutti i libri – una volta letti, possono prendere più strade: svanire per sempre, confondersi con altri, riaffiorare per accostamenti occasionali, reminiscenze, oppure espandersi e creare un loro ecosistema. E con Bull Mountain è successo proprio questo.
La prima volta che l’ho letto, NN non esisteva ancora, almeno non nelle librerie. L’editore per cui lavoravo ai tempi lo aveva ritenuto poco convincente, o inadeguato alla linea editoriale, nonostante la mia scheda di lettura positiva. Mi è capitato spesso e so che non c’è nulla da fare; se l’editore sta cercando altro non c’è spazio per intervenire. Come tutti i libri, pensavo, ha solo bisogno di trovare l’editore giusto. D’altronde, se c’è una cosa che ho capito dopo anni di professione, è che ogni libro ha il suo tempo; se sbagli momento lo bruci.
Quando all’incirca un anno dopo ho conosciuto Eugenia Dubini e abbiamo iniziato a collaborare, ho capito subito che Bull Mountain aveva trovato la casa editrice giusta. NN non era ancora uscita allo scoperto, ma il piano editoriale era già delineato; Haruf e la Offill attendevano impazienti sulle mensole della redazione.
Sono trascorsi alcuni mesi di intenso lavoro e quando mi è sembrato il momento opportuno, ho tirato fuori l’asso dalla manica. Il resto è accaduto in pochissimo tempo. Ci hanno creduto subito tutti, la redazione al completo, la distribuzione e i librai. L’entusiasmo per Bull Mountain è stato unanime: Panowich è entrato nella famiglia NN.
Famiglia! Non è un caso che il romanzo inizi proprio così; parola che aleggia “nell’aria in uno sbuffo di respiro gelido prima di svanire nella nebbia di inizio mattina.” E famiglia non è una parola che si possa usare con leggerezza a casa Burroughs. Il vecchio Riley, seduto su una sedia a dondolo nel portico della baita costruita da suo nonno, la adopera “come un mastro falegname ricorre a un martello. Talvolta con colpetti leggeri per insinuare il proprio modo di pensare nella testa dei suoi, oppure con la delicatezza di un maglio di cinque chili”.
Eccoci di fronte a un incipit che apre a un mondo, gli dà peso, e lo modella con precisione millimetrica. E dentro la famiglia di Bull Mountain c’è tutto, vita e morte. Per questo nella mia scheda di lettura non ho esitato a presentare il libro come una saga familiare. Ma c’è una domanda che mi tormenta: Panowich avrà iniziato il romanzo veramente con la parola “famiglia”? È stata la famiglia – la sua immagine, il suo corrispettivo linguistico – la genesi, la scintilla deflagrante e, allo stesso tempo, il motore propulsivo del libro? Perché è innegabile che è dall’abbraccio per nulla consolatorio della famiglia che nasce tutto; un abbraccio che è amore e odio, terra difesa dal sangue, imbevuta dal sangue; e che ogni riga, anzi ogni parola di Bull Mountain è definita dai vincoli familiari.

Una cosa che faccio sempre, quando ho la fortuna di incontrare libri che mi entusiasmano, è raccontarli a qualcuno che non sia del mestiere. Mi interessa sia la mia capacità di narrare la storia con poche parole e con chiarezza (dunque evocare immagini chiare, e questa è una forza che il libro ha in sé), sia la reazione dell’ascoltatore. Mio figlio è la cavia perfetta: è curioso, ha un buon orecchio e gli piacciono le storie, ma bisogna essere convincenti perché come tutti i bambini si annoia facilmente. E con Bull Mountain è successa una cosa spettacolare: mentre gli raccontavo dei due fratelli Clayton e Halford la sua mascella penzolava e gli occhi erano spalancati e luminosi. È stato emozionante. La storia della famiglia Burroughs gli è piaciuta talmente tanto che si è inventato il gioco di Bull Mountain: una montagna e due fratelli; uno buono e uno cattivo; uno sulla montagna e uno nella valle. E ovviamente il duello finale. In pratica un western, ma senza indiani.
Penso che sia proprio tutta qui la forza di un libro: se non riesce ad accendere l’immaginario del lettore, se non lo strappa al quotidiano e stordisce emotivamente, nel bene e nel male, non funziona. Un libro lo si deve sentire sulla pelle. È molto semplice: se il corpo non sente, il libro non vale nulla. Confido dunque nell’intelligenza emotiva, e non solo, dei lettori, che cercano esperienze destabilizzanti, piccoli deragliamenti e non solo intrattenimento. E Bull Mountain è un’esperienza di lettura potente: un pugno in pancia. Saga familiare, crime thriller, southern noir; si è cercato di definire il romanzo di Panowich in molti modi, ed è certo alla tradizione più nobile dei crime thriller che l’autore della Georgia attinge. Bull Mountain è un romanzo country-blues, ruvido e melodico allo stesso tempo.

Tatto, vista e olfatto sono coinvolti nella loro interezza. In molti anni di editoria ho valutato montagne di thriller, noir, hard-boiled, libri di genere e sottogenere, e un libro funziona quando una serie di elementi si combina alla perfezione: la storia, i personaggi, i dialoghi, l’organizzazione del testo, il ritmo. Ma prima di ogni altra cosa – sopra ogni cosa – c’è la cosa che avvolge tutto e definisce e affusola e rende potente un romanzo e che si chiama scrittura. Sì, la scrittura viene prima di tutto, e Panowich non è uno scrittore che si accontenta facilmente, ma un artigiano che cesella le parole per il raggiungimento dell’equilibrio perfetto.
Ricordo ancora la sensazione di avere tra le mani un libro scritto con gli “scarponi ai piedi”; solo dopo, sono venuto a sapere che Panowich lo aveva scritto in uno sgabuzzino nella centrale dei pompieri dove lavora, e che i suoi primi lettori, quelli a cui lui di volta in volta faceva leggere i capitoli, erano i suoi compagni di lavoro; altra gente con scarponi ai piedi. Bull Mountain non è un libro neutrale, e non è nemmeno una passeggiata al chiaro di luna: al lettore si chiede di attraversare boschi, percorrere sentieri di montagna, bere bourbon e mangiare uova, lardo e pancetta per colazione; “non è un libro da leggere in ciabatte” dovrebbe essere scritto sulla quarta di copertina.
Se c’è una cosa che Bull Mountain insegna è che sfuggire alle proprie origini, ovvero alla propria famiglia e terra, è una cosa difficile. La volontà non basta; i legami forti vanno recisi prima dentro, ed è lì, in solitudine e a confronto con la parte più profonda di sé, che si decidono le cose. È forse questa verità morale ad aver attecchito maggiormente in me.
Ancora oggi, rileggendolo a distanza di tempo, e per la prima volta tradotto, sono stato pervaso dalle stesse sensazioni. Panowich, con un passato da musicista rock, ha suonato nuovamente la sua partitura ed è arrivato alle mie orecchie con la medesima forza. Ogni capitolo affronta personaggi e momenti diversi, eppure quando si arriva alla fine, la sensazione che rimane è quella di essere stati investiti da un’unità compatta e solida; o meglio, attraversati.
Si esce da Bull Mountain storditi, i sensi pervasi dalle emozioni; le storie belle, come il buon vino, migliorano col tempo. Panowich ci ha chiesto di fidarci di lui e noi ci siamo fidati. Si è stabilito un patto. Non è forse questa la più grande felicità per un lettore?